C’è poesia anche nella cucina e nel cucinare. Come la si può definire, altrimenti, un’attività, un’arte che ti solletica i sensi, ti fa chiudere gli occhi e respirare profondamente per far tuo un odore, un profumo. Mentre la bocca freme in attesa di ricevere il piacere di un sapore.
Io ricordo bene quanto piacesse a mia madre, cucinare. Ricordo i pranzi pantagruelici che riusciva a preparare da sola, quando ancora era in salute, arrabattandosi tra pentole e tegami per ore. Giorni.
Era una donna semi analfabeta, ma aveva un grande cuore e adorava cucinare, e così ne aveva fatta un’arte, la sua arte, con la quale riusciva a comunicare agli altri la sua gioia di vivere e la sua voglia di compagnia, il bisogno e il desiderio di dare e ricevere affetto, di tenere unita la famiglia e gli amici usando il cibo come collante, tutti insieme attorno ad una tavola imbandita. E quel momento non è più solo “mangiare”, è molto di più: è vita.
Quella che mia madre non ha più, ma che per me riacquista ogni volta che, indegnamente, mi sostituisco a lei ai fornelli.
E cos’è questa, se non poesia.