L’ultima nota della ghironda

battle

Il suono dolce e straziante di una ghironda bretone da lontano attraversa l’aria fresca di questo pomeriggio d’autunno. Sfiorando l’erba giunge alle mie orecchie strappandomi dall’oblio in cui ero caduto, ricostringendomi alla vita.

Non ho bisogno di aprire gli occhi per capire che la battaglia è finita. Non si sente più il nitrito furioso dei cavalli pesanti, lo scalpitare dei loro zoccoli su questo duro terreno. L’aria non è più graffiata dallo sibilare delle frecce scoccate dai rozzi mercenari gallesi né dai più raffinati, e altrettanto efficaci, arcieri francesi. Mancano le grida animalesche dei fanti lanciati verso il corpo a corpo, le urla feroci con cui sperano di incutere il terrore nel nemico, e dimenticare il proprio.

Questo è il silenzio di quando tutto è finito, e a terra restano soltanto poveri corpi senza più vita, oppure moribondi, come sono io, ormai incapaci di alcun movimento né di emettere anche il più flebile sospiro, tanta è la fatica, tanto è il dolore.

Chi mi ha creduto morto mi ha negato il gesto pietoso di tagliarmi la gola per porre fine alle mie sofferenze, con la stessa mano con cui l’istante dopo mi ha spogliato dei miei pochi beni: un pezzo di stoffa, una borraccia, le mie armi. Gli strumenti del mio lavoro di soldato.

Dove sono la logica della guerra, il dovere della battaglia, l’onore della sconfitta e del perdere la vita? Non nella smorfia di morte del cavaliere che mi giace accanto, neppure negli altri corpi accartocciati al suolo come tragici fantocci. Nemmeno in questa lunga lancia che mi trapassa lo stomaco e mi tiene grottescamente ancorato al terreno.

Onore, dovere. Sono parole vuote di cui si riempiono la bocca i nobili, i signori. Tutti coloro i quali giocano alla guerra standosene comodamente seduti sulle loro poltrone in sale piene di arazzi e di camini tenuti accesi da servitori.

Ma la guerra è ciò che mi sta attorno ora: uomini che non faranno rientro a casa e che adesso giacciono sullo stesso suolo. Soldati, come me, che non sono mai andati in cerca di gloria, ma partiti per la guerra per sfuggire alla fame e sfidano la morte per un tozzo di pane. Soldati che lasciano sole le proprie donne, che ci considerano morti fin dal primo istante in cui ce ne siamo andati, e ci ritengono tali finché non torneremo a casa, semmai lo faremo. Donne che crescono i nostri figli, e ci piangono ogni giorno.

Donne per le quali rappresentiamo il tormento di un compagno mai presente, e il sollievo di una bocca in meno da sfamare. Donne troppo spesso trattate come schiave, brutalizzate, offese umiliate, anche e soprattutto da chi avrebbe il dovere di proteggerle, se non anche di farle felici.

Donne come te, cui sto pensando ora, mentre un rivolo di sangue tenta inutilmente di sporcare il sorriso che si è acceso sulle mie labbra, e penso che il suono di quella ghironda che suona in lontananza somiglia alla tua voce. Voce di donna, di madre, che un poco rimprovera e un po’ consola.

Penso a te ora, troppo tardi. Penso al mio più grande errore, l’averti trattata come avrebbe fatto chiunque, quando invece ti ho amata come mai potrei amare nessun altro.

Se soltanto tu fossi qui, ora, a regalarmi un sorriso. Se io potessi stringerti la mano anche un solo istante, e attraverso la mia pelle dirti tutto ciò che non ho mai fatto uscire dalle mie labbra.

Se questo potesse avvenire allora sparirebbe tutto il male che ho attorno e dentro.

Resteremmo soltanto noi due, il buio, il suono della ghironda, e questa mia ultima notte sarebbe perfetta.

About Davide Piazzi

Scrivo, leggo, penso. A volte ragiono
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3 Responses to L’ultima nota della ghironda

  1. Grazie a tutti quelli che mi hanno scritto in privato parole gentili di apprezzamento.
    Davide

  2. Antonella says:

    Sono riuscita a leggerlo solo ora… e come al solito non ti sei smentito: COMPLIMENTI è sempre un piacere leggere qualcosa di tuo. A presto. Antonella

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